Novità del PIME

Mondo e Missione

La forza e la fede del popolo (lun, 06 mag 2024)
La Teologia del popolo, a cui Papa Francesco aderisce convintamente, esprime fiducia nell’esperienza della gente credente, a partire dai poveri A Verona, nel contesto di “Arena di pace” del 17 e 18 maggio, Papa Francesco incontrerà i movimenti ecclesiali e popolari. Nati e diffusi in America Latina, questi movimenti sono da sempre stimati e sostenuti dal Pontefice argentino. E in Argentina nasce anche la Teologia del popolo, a cui Francesco aderisce convintamente. Una teologia che esprime fiducia nell’esperienza della gente credente, a partire dai poveri. Quando vive la fede con semplicità evangelica, il popolo comprende in modo profondo il mistero cristiano. È, in un certo modo, un’attualizzazione della dottrina del “senso della fede dei fedeli”, che è tradizionale ma spesso ignorata nel discorso teologico ed ecclesiale. Quando il Concilio Vaticano II descrive la Chiesa come “popolo di Dio”, piuttosto che “società perfetta gerarchicamente costituita”, riprende la dottrina della pari dignità di ogni battezzato; dignità che è primaria rispetto a ogni altra distinzione di ministeri e carismi. Lo straordinario valore della fede del popolo mi è sempre stato di un’evidenza chiarissima: sono cresciuto in una povera famiglia contadina e in una piccola comunità marginale. Vivevamo la fede e i suoi riti con la naturalezza delle cose quotidiane. Ho sempre avuto una stima profonda per la nobile dignità della gente povera e per la spiritualità degli umili. Fin da ragazzo ho avuto in don Lorenzo Milani un grande ispiratore. Un uomo e un prete che ha speso la sua giovane e tormentata vita dando dignità, parola e diritti a giovanissimi operai e contadini, ovvero ai “figli del popolo”, che allora erano sfruttati e contavano meno di niente. La bellezza del genitivo “del popolo” è legata, nella mia coscienza, all’eredità di don Milani. Sono contento che la sua lezione venga ripresa oggi da decine di iniziative, a partire dalla visita a Barbiana del presidente Sergio Mattarella. Don Milani è stato profeta e maestro della non violenza, dell’obiezione di coscienza, del rifiuto della guerra, della giustizia sociale: gli stessi temi dell’appuntamento di Verona. I movimenti popolari toccano oggi molti Paesi. Quello democratico di Hong Kong, che ho conosciuto da vicino e che è stato soppresso da leggi sulla sicurezza nazionale (ne scriviamo in questo numero), è stato davvero una mobilitazione di popolo, che includeva persone di tutte le età, provenienze sociali e religiose. Ne fanno fede la straordinaria partecipazione alle manifestazioni prima della repressione: due milioni di cittadini in strada, in una città che ne conta sette, e il plebiscitario esito delle elezioni quando erano libere. Anche per questo, noi tutti partecipiamo, con i movimenti popolari e Papa Francesco, al cantiere della pace.  L'articolo La forza e la fede del popolo sembra essere il primo su Mondo e Missione.
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La missione come dialogo (Fri, 03 May 2024)
Forte della sua esperienza di “pied-noir” in Algeria e dei suoi studi teologici in Francia, il cardinale Jean-Marc Aveline delinea una nuova prospettiva missionaria “Il dialogo della salvezza” è il titolo del libro dell’arci­vescovo di Marsiglia pubblicato da Libreria Editrice Vaticana (pp. 125, euro 14). Nato e cresciuto in Algeria, costretto con la famiglia a rientrare precipi­tosamente in Francia dopo l’indipendenza del Paese nordafricano, il cardinale Aveline ha sempre mante­nuto un’attenzione particolare sul Mediterraneo e sull’imprescindibile tema del dialogo interreligioso, che emerge anche da questa sua “piccola teologia della missione”. Ve ne proponiamo qui uno stralcio. La cosa più sorprendente non è che i cammini degli uomini verso Dio siano molteplici, ma piuttosto che i cammini di Dio verso l’umanità siano sempre adattati alla situazione culturale, sociale, religiosa, irreligiosa, non-religiosa o atea di ogni persona umana. […] È ormai impossibile, per vivere la missione della Chiesa, non tenere conto del contributo degli altri alla Missio Dei, cioè delle loro risposte alla chiamata di Dio, chiamata che è per tutti e che era già prefigurata dalla promessa fatta ad Abramo per la salvezza del mondo. Anche se i cristiani professano che questa salvezza è già ottenuta e offerta a tutti nel mistero pasquale della morte e risurrezione di Gesù Cristo, ciò non li esonera dal dover cercare le tracce della chiamata di Dio e del desiderio di salvezza in ogni esistenza umana poiché sono convinti, come li invita a essere la Gaudium et spes, che lo Spirito dà «a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale». Nella gioia di questa missione ad gentes, la Chiesa può inoltre, secondo il saggio consiglio di Moses Mendelssohn, ringraziare Dio per aver voluto arricchire l’unità della famiglia umana con tante differenze. Ma questa unità non è, agli occhi della fede cristiana, una realtà legata solo alla creazione. È anche una realtà escatologica alla quale, afferma la Lumen gentium, «tutti gli uomini» sono invitati perché universalmente chiamati «alla salvezza». Il mandato missionario dato da Cristo ai suoi discepoli si colloca nell’orizzonte della promessa fatta ad Abramo, ma procede dalla vita trinitaria: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo”» (Gv 20,21-22). Dobbiamo prendere atto della novità rappresentata dalla rivelazione da parte di Cristo di un Dio che è Trinità per com­prendere l’espressione conciliare di «nuovo Popolo di Dio»: un po­polo che lo Spirito integra gradualmente alla comunità dei credenti, «espandendola» prima ancora di ogni sforzo o strategia missionaria secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, per poi spingerla «in uscita» ad gentes, verso tutti i popoli del mondo, affinché questa comunità cooperi con lo Spirito per radunare insieme nell’unità i figli di Dio dispersi (cfr. Gv 11,52). L’esortazione dei Padri conciliari su questo tema, nella Lumen gentium, è davvero insuperabile per la sua chiarezza: «Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva» (13). Questa è la “cattolicità” della Chiesa. Composta da ebrei e pagani sotto l’egida dello Spirito, la  Chiesa accompagna il cammino di Dio verso i popoli del mondo fino ai «confini della terra», pronta a entrare in un dialogo di salvezza con tutti gli uomini «di buona volontà». Alla scuola della Vergine Maria, Madre della Chiesa, si tratta di imparare a «generare nello Spirito e nella fede nuovi figli e figlie di Dio», come ce lo ricorda Papa Francesco, attraverso la contemplazione e l’ascolto della Paro-la, attraverso la preghiera e il servizio alle sorelle e ai fratelli. […] Del resto, quando rileggiamo la storia, non possiamo non stupirci per il posto prioritario e decisivo del servizio ai poveri nell’azione missionaria della Chiesa, come se fosse la bussola infallibile che guida il pellegrinaggio terreno dei discepoli di Cristo. I passi più significativi nell’evoluzione della teolo­gia missionaria sono stati compiuti quando l’attenzione per i più pove­ri ha costretto la Chiesa a diventare  più libera, audace, evangelica, disposta a convertirsi al modo in cui Dio ama l’umanità e ci chiama a viverla come fratelli. […] Riprendendo il messaggio che Giovanni Paolo II, trentaquattro anni prima, aveva rivolto ai cristiani del Marocco, Papa Francesco, parlando ai sacerdoti e alle persone consacrate riuniti nella cattedrale di Rabat il 31 marzo 2019, ha commentato la parabola del lievito: «Gesù non ci ha scelti e mandati perché diventassimo i più numerosi! Ci ha chiamati per una missione. Ci ha messo nella società come quella piccola quantità di lievito: il lievito delle beatitudini e dell’amore fraterno. […] Quindi il problema non è essere poco numerosi, ma essere insignificanti, diventare un sale che non ha più il sapore del Vangelo – questo è il problema! – o una luce che non illumina più niente (cfr. Mt 5,13-15). […] Il cristiano, in queste terre, impara ad essere sacramento vivo del dialogo che Dio vuole intavolare con ciascun uomo e donna, in qualunque condizione viva. […] Così, quando la Chiesa, fedele alla missione ricevuta dal Signore, “entra in dialogo con il mondo e si fa colloquio” (Ecclesiam Suam, 67), essa partecipa all’avvento della fraternità, che ha la sua sorgente profonda non in noi, ma nella Paternità di Dio». Auspico che questo programma possa rinnovare dall’interno la Chiesa affinché sia sale della terra e luce del mondo, non secondo vanagloria mondana, ma dando corpo, con discrezione e umiltà, al lievito delle beatitudini e dell’amore fraterno.  L'articolo La missione come dialogo sembra essere il primo su Mondo e Missione.
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Cantieri di pace (Thu, 02 May 2024)
Il 18 maggio a Verona Papa Francesco incontrerà le realtà della società civile, ecclesiali e laiche, riunite per “Arena di Pace”, un grande evento per dire con forza “no” alle guerre e proporre modelli alternativi di convivenza, dall’economia ai diritti. L’editoriale della Federazione stampa missionaria italiana (Fesmi) Si vis pacem, para bellum: se vuoi la pace, prepara la guerra. L’antico adagio, a guardare alle decine di conflitti ad alta o bassa intensità che si combattono nei diversi continenti, sembra tornato di moda. Una guerra non solo di scontri armati ma che paventa una rapida distruzione del pianeta, se dovesse verificarsi lo scenario di un conflitto nucleare, minacciato da chi di pace non intende sentir parlare. In risposta a questa tentazione, esattamente dieci anni dopo l’ultima imponente manifestazione svoltasi nell’aprile 2014 all’Arena di Verona, torna “Arena di Pace”, rinnovata sia per i temi trattati sia per le modalità di attuazione, che vede coinvolti a livello nazionale e sovranazionale dozzine di entità ecclesiali e laiche, gruppi ecumenici e interreligiosi, movimenti popolari e organizzazioni non governative, rappresentanti sindacali e società civile. L’intento è di richiamare con forza il nostro governo a rispettare e applicare l’articolo 11 della Costituzione che recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Un auspicio e un progetto disattesi, visto il coinvolgimento diretto o indiretto dell’Italia nelle situazioni di conflitto nel mondo. Arena 2024, che si svolgerà il 18 maggio, come le precedenti nasce dal mondo missionario, ecclesiale e laico, che contrappone la logica della pace a quella della guerra, al fine di spingere le istituzioni politiche a dare una risposta concreta, unitaria e ispirata ai principi di giustizia e di pace, per evitare di cadere nel baratro di un conflitto globale. «Giustizia e pace si baceranno»: queste parole di Isaia – poste a titolo dell’assemblea popolare – raccolgono l’aspirazione di milioni di persone che sognano un mondo in cui siano le vie del dialogo, dell’accoglienza reciproca e della pace alla base della convivenza planetaria. A testimoni di pace di oggi, dai vari continenti, si unirà la memoria di grandi profeti da far conoscere ai giovani: Romano Guardini, Aldo Capitini, Giorgio La Pira, Ernesto Balducci, Tonino Bello, Davide Maria Turoldo, Primo Mazzolari, Arturo Paoli oltre a tanti protagonisti delle Arene precedenti. L’impegno per la giustizia e la pace non intende limitarsi all’incontro di maggio: vuole essere invece l’avvio di un processo di costruzione della pace che prosegua dopo l’evento, scuota la coscienza di tutti e coinvolga l’intera società. È questo il sogno di chi per lunghi mesi ha organizzato l’iniziativa e dei suoi maggiori protagonisti: Papa Francesco, che sarà presente e ribadirà il suo chiaro dissenso a guerra e violenza; il vescovo di Verona Domenico Pompili, che da mesi anima la preparazione; l’amministrazione comunale di Verona, che in tanti modi ha facilitato e accompagnato l’organizzazione della manifestazione e i componenti dei cinque tavoli di lavoro che hanno riflettuto su cinque temi critici: pace e disarmo; ecologia integrale e stili di vita; migrazioni; lavoro; democrazia e diritti. Parafrasando Papa Francesco, Arena 2024 mira a «creare seminatori di cambiamento, promotori di un vero processo virtuoso di cultura della pace; compiti imprescindibili per camminare verso un’alternativa umana di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza». In questo rinnovato impegno che parte dall’appuntamento di Verona le riviste missionarie delle Fesmi continueranno ad esserci con il loro compito: raccontare i tanti cantieri dove questa strada della pace è un’alternativa concreta che prova ogni giorno a costruire un’umanità nuova. Insieme e adesso.    L'articolo Cantieri di pace sembra essere il primo su Mondo e Missione.
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Padre Parolari, una vita tra i malati del Bangladesh (Wed, 01 May 2024)
Padre Piero Parolari, nel 2015 vittima di un attentato, ha vissuto gran parte della sua missione a fianco delle persone affette da tubercolosi accudite nel Sick Shelter del Pime A Rajshahi. «Volevamo offrire cure di qualità anche ai più poveri», racconta «Sono solo caduto dalla bicicletta». Con queste parole padre Piero Parolari, 74 anni, oggi parla dell’attentato di cui è stato vittima il 18 novembre 2015 mentre stava andando all’ospedale di Dinajpur, in Bangladesh. Il proiettile che l’ha colpito ha danneggiato il nervo acustico, provocandogli disturbi all’udito, ma è entrato e uscito dal collo senza ledere nessun organo vitale. «Un millimetro un po’ più in là e non sarei qui». E lo sa bene padre Parolari, che prima di diventare prete ha studiato medicina. «Arrivato in Bangladesh la prima volta nel 1985, non volevo saperne di fare il medico, ero venuto per essere missionario». Invece poi le cose andarono diversamente. Per sedici anni il missionario del Pime, originario di Lecco, ha lavorato nel “sick shelter” (rifugio per malati) di Rajshahi, fondato nel 1980 da padre Faustino Cescato insieme a suor Silvia Gallina, suora di Maria Bambina. «I malati venivano in città a farsi curare, ma non avevano un posto dove stare», spiega padre Parolari. «Alcuni di quelli che arrivavano dai villaggi più remoti dormivano persino per strada». Per cui il centro di Rajshahi nacque per dare la possibilità anche ai più poveri, che non potevano pagare le cure nelle cliniche private, di ricevere terapie ed esami di qualità. Si rivelò fin da subito una soluzione vincente, tanto che i padri del Pime in seguito la replicarono anche in altre missioni. Ancora oggi le suore accompagnano i pazienti a fare le visite e i missionari hanno contatti frequenti con i medici e gli infermieri locali. Nonostante siano religiosi cristiani in un Paese musulmano. «Ci sono stati periodi più complicati, durante i quali precedenti governi non erano a favore delle minoranze – continua il missionario – ma in generale abbiamo sempre avuto un rapporto positivo con gli operatori sanitari e molto spesso abbiamo creato anche legami profondi di reciproco apprezzamento». Al suo arrivo in Bangladesh, quindi, padre Parolari iniziò a visitare i villaggi abitati perlopiù da indigeni delle aree tribali per seguire nelle cure gli ammalati, insieme a suor Gallina e a padre Gianni Zanchi, che era nel Paese già dal 1975. Fin da subito fu un lavoro di squadra: «Io giravo tra i villaggi, padre Mariano Ponzi­nibbi faceva formazione alle suore che lavoravano nei dispensari, padre Zanchi gestiva il lavoro e suor Silvia era l’elemento carismatico del gruppo. Non era infermiera ma la chiamavano la “Madre Teresa del Bangladesh”». Dopo un po’ di tempo i missionari notarono una categoria di pazienti abbandonata a se stessa: i tubercolotici. «Coloro che avevano ricevuto una diagnosi spesso non portavano a termine la terapia, che al tempo durava un anno. Diventavano malati cronici e nessuno si prendeva più cura di loro». Anche il governo del Bangla­desh si era reso conto del problema, per cui nel 1987 decise di riunire tutte le organizzazioni non governative che avevano le capacità di avviare un programma di controllo della tubercolosi sul territorio. I missionari del Pime accettarono la proposta e presero parte al programma sotto l’ombrello della Caritas bengalese. Padre Parolari visitava i pazienti: «Ho dovuto imparare a fare l’esame dell’espettorato col microscopio alla luce solare, perché in quegli anni molti villaggi non avevano la corrente elettrica. Oppure, quando chiedevo a che ora venisse la febbre, mi rispondevano indicandomi il punto in cui si trovava il sole a quell’ora, non mi dicevano l’orario preciso». A preoccupare di più il medico e missionario, però, non erano tanto le mancanze infrastrutturali quanto i pazienti cronici, che avevano bisogno di fare radiografie, esami più complessi, ed essere seguiti dal personale sanitario nel percorso di guarigione. Padre Parolari pensò allora di dedicare una sezione del sick shelter ai malati di tubercolosi: «Nel 1990 costruimmo un nuovo centro accanto a quello per malati generici», spiega il missionario, che usa sempre il plurale perché non gli piace «mettersi al centro». Una volta negativizzati, i pazienti potevano restare gratuitamente. «In quegli anni avevamo un ottimo rapporto con l’ospedale pubblico, al quale mandavamo i casi più complicati». La collaborazione con il governo del Bangladesh durò dieci anni, grazie agli ottimi risultati ottenuti dai missionari. La situazione migliorò ulteriormente dopo l’introduzione nel 1993 di una nuova terapia contro la tubercolosi di sei mesi, chiamata DOTs (acronimo che deriva dall’inglese directly observed treatment, short-course), che indica una somministrazione di farmaci supervisionata e giornaliera. Un sistema che era stato introdotto più di dieci anni prima in Africa da un’altra anima missionaria: Annalena Tonelli. «Non era medico – dice Parolari – eppure riuscì ad attuare un programma pilota dell’Organizzazione mondiale della sanità. L’amore intelligente arriva prima della scienza e della medicina, questa è la mia teoria». Ma anche per il missionario di Lecco l’esperienza dello Sick Shelter fu trasformativa: «Intanto, anche dopo tanti anni a contatto con i tubercolotici, non mi sono mai ammalato, e già questo è un grande dono», racconta il sacerdote. «Ma soprattutto, partecipare al programma del governo ci ha dato la possibilità di prenderci cura degli ammalati di ogni fede religiosa. Mettere al centro l’altro e dedicare un’attenzione qualificata anche ai poveri mi ha aiutato a trovare una sintesi tra la figura del medico e quella del missionario. E il fatto che le strutture sanitarie mancassero – prosegue Parolari – mi ha costretto ad ascoltare i pazienti, a conoscere la loro storia, più che se fossi rimasto in Italia». Un ascolto che i poveri e gli emarginati del Bangladesh non avevano mai ricevuto: «Un vescovo del Bangladesh ci disse che il centro per malati era molto bello ma aggiunse che in Bangladesh l’ascolto dell’ammalato è già una terapia». Dopo qualche anno di formazione a Roma, padre Parolari venne destinato a Dinajpur, un’altra diocesi, come Rajshahi, fondata in origine dai missionari del Pime. Per qualche strano giro del destino, conosceva già l’ospedale locale: «Nel 1970, quando stavo   L'articolo Padre Parolari, una vita tra i malati del Bangladesh sembra essere il primo su Mondo e Missione.
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